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Definizione di danza orientale e sua evoluzione nel corso dei secoli

05 Dicembre 2017 | commenti

 

La prima danza mai eseguita da una donna potrebbe essere stata una “Danza del Ventre”. E con questa espressione, da alcuni giudicata quasi blasfema, vogliamo semplicemente sottolineare la centralità che il ventre, quale importante centro di energia vitale, in essa vi assume. Infatti la più corretta accezione di “Raqs Sharqi”, con la quale la forma di danza femminile più popolare in Medio Oriente è conosciuta dagli stessi arabi, riconduce quest’espressione artistica ad un ambiente di cultura musicale di tipo “orientale” rispetto all’originale distinzione, operata dai geografi all’interno del mondo arabo, tra un “Maghrib” che comprende i territori dell’Africa settentrionale ad ovest dell’Egitto, ed un “Mashriq” che corrisponde ai territori appartenenti al mondo arabo ad oriente di esso. Ma probabilmente la nostra danza, dalle origini molto più antiche rispetto alla nascita ed alla diffusione di una cultura arabo-islamica e che solo successivamente è stata assorbita da essa, era assai più diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo rispetto alle restrizioni geografiche che abbiamo menzionato. La spiccata mobilità della parte inferiore del tronco che la caratterizzava aveva un’importanza così rilevante sia da un punto di vista simbolico che reale da rendere la definizione di “Danza del Ventre” tutt’altro che banale e svilente.

Nell’antica tradizione dell’Estremo Oriente, il plesso solare o celiatico, collocato leggermente al di sopra dell’ombelico, è considerato il vero e proprio punto centrale del nostro corpo, dal quale vengono distribuite le energie fisiche ed emozionali. L’ombelico, unico punto di contatto sul piano fisico tra la madre ed il nascituro, è un canale di scambio energetico tra il mondo interno ed il mondo esterno, un elemento di connessione tra corpo fisico e corpo spirituale, delicato a tal punto da far suggerire che venga tenuto coperto e protetto da influenze esterne. Un retaggio di tale usanza potrebbero essere infatti le pietre e gli ornamenti che fin dall’antichità coprivano il ventre femminile.

Probabilmente le nostre sorelle preistoriche, molto meno dotate di noi in capacità intellettiva ma molto più di noi in istinto ed intuizione, erano in grado di padroneggiare assai meglio delle donne evolute del nostro secolo i centri energetici inferiori legati alla sessualità, alla creatività ed alle emozioni al punto da farli diventare una canale di comunicazione attraverso il quale il movimento poteva fluire e raccontare di sé. Questo si verificava di frequente nella realtà dell’esistenza, quando l’individuo si apprestava a soddisfare dei bisogni vitali per sé stesso e per la sopravvivenza della specie:il concepimento ed il parto. La danza di questo ventre femminile, che molto spesso venne associato, per analogia, al ventre sacro della terra, era probabilmente un assolo:eseguito forse da più donne contemporaneamente, ma pur sempre una danza individuale, espressione della creatività del singolo. I suoi movimenti erano spontanei e naturali. I piedi, strettamente connessi con il suolo, non sfidavano la gravità con grandi salti, giravolte e movimenti acrobatici che lanciassero gli arti inferiori al di sopra del capo, mantenendo l’equilibrato rapporto tra cielo e terra, tra razionalità ed istinti, tra corpo ed intelletto. Essi collegavano invece con la terra il tronco, che naturalmente e con grande semplicità ricadeva verso il suolo, in ragione del suo stesso peso.

Il ritmo era l’unico accompagnamento sonoro al movimento, la cui intuizione derivava dalla ciclicità che scandiva i vari momenti dell’esistenza umana e l’alternarsi delle stagioni in una periodica e precisa ripetizione indispensabile alla continuità della vita, alla quale l’uomo si affidava sentendosi parte di tutto il mondo vivente. Tale ritmo si esprimeva attraverso i suoni prodotti dalla natura, dal lavoro dei compagni, dal battito delle mani o di qualche pietra e utensile, suoni tutti in sintonia con il più antico e fondamentale ritmo:quello del battito del cuore. Tali caratteristiche, ovvero quella di essere una danza individuale, spontanea, centrata sui movimenti del bacino e fortemente legata ad una struttura ritmica, fanno ancora parte del “background” di questa disciplina, anche e nonostante le molteplici metamorfosi che essa ha subito attraverso i secoli, che spesso rendono l’odierna danza irriconoscibile rispetto a queste antiche premesse. E così anche nella sua più decadente e stereotipata versione, eseguita in un costume super-accessoriato di paillette e lustrini, attraverso un susseguirsi di movimenti appariscenti ed ammiccanti, viene percepito “qualcosa” di più arcaico ed antico, che accomuna questa danza a quella di queste donne primitive e la collega alle altrettanto antiche tradizioni dell’Africa, Oceania, Estremo Oriente.

Immaginiamo che l’uomo della preistoria fosse ancora lontano dall’aver elaborato un linguaggio verbale talmente articolato da poter affidare ad esso l’espressione di tutti i bisogni dell’esistenza. La capacità di comunicare gran parte di tali necessità era dunque affidata alla gestualità ed al corpo. E le esigenze vitali, nel contesto di un ambiente ostile e pieno di pericoli, dominato da forze in gran parte ancora sconosciute, erano quelle di conservare la specie e di soddisfare, oltre al bisogno di cibo, acqua e riparo, anche quello sessuale. La danza diventa quindi un necessario rito di preparazione all’accoppiamento. Ma essa svolge anche un’altra importante funzione nella vita dell’uomo di allora:quella di placare e di dirigere le oscure forze soprannaturali che dominano il segreto della vita attraverso l’imitazione di tali forze e la ripetizione di movimenti simbolici che lentamente arrivarono ad assumere la forma del rito.

Queste arcaiche cerimonie esorcizzavano la paura dell’ignoto ed erano di buon auspicio per il compimento degli eventi più importanti e felici dell’esistenza. Il miracolo che ogni volta si perpetuava nella rinascita dei raccolti era assai simile a quello del ventre materno che, ciclicamente, si gonfiava e generava. In questo mondo pre- patriarcale, nel quale era del tutto ignota l’esistenza di un ruolo maschile nel concepimento, la donna acquistò, per la sua capacità di procreare, una potenza spirituale che la univa fortemente al divino.

Ne sono una testimonianza le così dette “Veneri paleolitiche”, piccole sculture alte pochi centimetri, scolpite in osso, avorio, pietra, le più antiche da noi conosciute ed interpretate come simboli di fecondità. E’ significativo infatti il loro aspetto quasi deforme, causato dalle cosce massicce, i seni prominenti e da una generale opulenza nella struttura fisica, unica garanzia di sopravvivenza per il genere umano durante la glaciazione datata dai 35. 000 ai 10. 000 anni fa alla quale questi reperti sembrano risalire. Probabilmente a queste figure si può ricollegare la Bianca Dea custode della nascita, dell’amore e della morte, una delle prime divinità conosciute, personificata dalla luna nelle sue diverse fasi ed adorata in tutto il mondo antico con un numero infinito di nomi:Iside, Artemide, Ishtar sono soltanto alcune tra le più conosciute sembianze di questo archetipo di divinità femminile. Il culto di questa Grande Dea nelle sue molteplici forme sopravviverà anche nei secoli successivi, nonostante il progressivo affermarsi di culti associati a divinità maschili con di riti più strutturati e formali.

Agli albori della civiltà tutti collaboravano per la sopravvivenza della tribù, vivendo e lavorando a fine di garantire a tutti lo stretto necessario; non venivano prodotte eccedenze che giustificassero la nascita di differenze sociali, proprietà privata, distinzioni di potere e ruoli tra i sessi. Successivamente, alle soglie della storia, l’agricoltura fornì nuove fonti di cibo che permisero ad alcuni popoli di stabilirsi in territori fertili, evitando spostamenti continui da un luogo all’altro. Man mano che nel bacino del Mediterraneo, considerato la culla della civiltà (ed, in questo caso potremmo a ben ragione dire, anche “culla della danza”), fiorivano raffinate culture, anche i culti da esse dedicati alle divinità divennero più precisi ed articolati. Le donne, incarnazione dell’unione tra seme e crescita, acquistarono in questo momento una posizione privilegiata e le divinità femminili anche.

In Egitto il Dio delle inondazione era venerato con il nome di Api. Veniva raffigurato nelle sembianze di un uomo barbuto che indossava la sottile cintura dei pescatori del Nilo e reggeva i prodotti della terra. Tuttavia, il pendulo seno ed i ventre sporgente lo identificano come una divinità femminile associata alla fecondità. La piena del Nilo era ogni volta salutata con musica, canti e danze. Secondo un’antica usanza nei campi veniva condotta una giovane ancora vergine che danzava per propiziare i raccolti; la sua nudità aveva un significato religioso, come probabilmente quella delle danzatrici che nei templi si offrivano alle divinità; questo non era strano in una civiltà nella quale donne appartenenti alle classi nobili esibivano il seno nudo o coperto da veli trasparenti a dimostrazione del loro status sociale e di parità con gli uomini e dove l’abito era concepito non per coprire ma per adornare il corpo.

Gli Egizi erano grandi amanti dell’arte ed intenditori di Musica e Danza che non mancavano mai nei momenti significativi dell’esistenza pubblica e privata. Fu, ad esempio la cantante Tantum, durante la 18′ dinastia a diffondere il fascino dell’arte musicale egizia al di là dei confini del proprio paese rendendola popolare in tutto il Mediterraneo. Il padre della storia, Erodoto, ci conferma la grande popolarità che il canto egizio ebbe nel mondo antico; abbiamo conoscenza di una grande quantità di strumenti a fiato, corde e percussione già allora in uso ed alcuni dei quali ancora diffusi nel mondo arabo o progenitori di quelli attuali.

Le danzatrici sacre accompagnavano processioni e cortei funebri, presenziavano alle cerimonie religiose ed offrivano la loro danza alle divinità svolgendo il ruolo di intermediarie tra esse ed il popolo; questa funzione faceva si che appartenessero ad una casta privilegiata nella struttura sociale dell’epoca, rigidamente divisa in classi. Luciano ci descrive una danza sacra chiamata “Estrellada”; veniva eseguita in circolo, attorno all’altare del sacrificio al centro del quale veniva posta una pietra sacra, simboleggiante il sole, considerato nell’antichità “l’occhio dell’universo”. Templi sacri di altre civiltà quali quella indiana, persiana, siro- babilonese o greca saranno stati scenari di rituali simili ed una traccia di questo rito ci è pervenuta attraverso le cerimonie celebrate dalle confraternite sufi. Il “Sema”, ovvero la danza dei dervisci rotanti, simboleggia infatti il movimento dei pianeti intorno al sole; attraverso l’evocazione di questo moto i fedeli sperimentano la più intima e totale unione con il principio creatore. La presenza delle danzatrici durante i banchetti funebri è ampiamente documentata dalle numerose immagini ritrovate nei monumenti e nelle tombe. Era usanza quella di celebrare il passaggio all’altra vita con banchetti e festeggiamenti in modo da creare intorno al defunto un ambiente di allegria e di festa che lo avrebbe aiutato nel suo viaggio. Ed infine, le stesse danzatrici si esibivano di fronte alle gigantesche statue, spesso omaggiando il Dio Bes, rappresentato nelle grottesche sembianze di un nano, africano nei tratti del viso e recante sul capo un diadema di piume, protettore della guerra, dell’allegria ed anche della danza.

Raffinati esteti, portati da un lato all’ordine ed allo schematismo e dall’altro alla monumentalità, gli antichi egiziani concepirono maestose danze corali che andarono ad assumere la forma di imponenti coreografie articolate in movimenti sincronizzati o eseguiti in una ordinata successione, niente affatto dissimili dalle danze collettive ancor oggi eseguite in Nubia. L’estremo meridionale dell’Egitto, meno permeato di cultura e tradizione assimilata dagli invasori arabi, rivendica una discendenza diretta dal popolo dei faraoni, tuttora attestata dalle usanze, dai costumi e dalla lingua. Le danzatrici si muovevano anche individualmente, con movimenti acrobatici che mettevano in evidenza l’addome; il ventre, evidenziato da tatuaggi, come ci è dato di sapere attraverso l’osservazione delle mummie a noi pervenute, deve aver avuto un ruolo fondamentale nelle loro movenze. I motivi ricorrenti in queste decorazioni sono simboli di procreazione, di fertilità e di pace, rappresentati in forma di lune crescenti assai simili a quelle mezzelune dorate che possiamo ancora oggi vedere come ornamento al petto o appoggiate sul ventre delle danzatrici dell’Alto Egitto. Osservando i geroglifici che rappresentano la figura umana possiamo rilevare come lo yoga non sia stata una prerogativa dei soli indù:la postura raffigurata nelle immagini riportate nei geroglifici e quella delle statue non è causale; essa trasforma infatti il corpo in una forma simbolica vivente (triangolo, cerchio, squadra, linea retta…), che rappresenta per esso quello che il rituale è per lo spirito, un momento di purificazione e di trasmutazione.

Oltre i confini dell’Egitto, in altre civiltà del bacino Mediterraneo, sacerdotesse velate veneravano attraverso la danza altre divinità femminili, incarnazioni dello stesso concetto di fertilità, protettrici dei raccolti e garanti della sopravvivenza, come tali dotate di un ruolo importante nella vita sociale e religiosa dei popoli. La loro presenza è, ad esempio, testimoniata a Malta, dove ricerche hanno dato luce ad un tempio sotterraneo, sede di un santuario e probabile residenza di un oracolo. Enormi statue rappresentanti donne dormienti sdraiate pigramente su di un fianco, alcune delle quali incinte, vegliavano questo luogo, consacrato probabilmente ad una di queste divinità femminili.

Attorno al mistero della vita e della nascita si sono sviluppati innumerevoli riti i quali, pur provenendo da angoli diversi del mondo ed avendo differenti protagonisti ed ambiti geografici, mostrano somiglianze tra loro sorprendenti. Argomento assai comune a tutte le civiltà antiche è la nascita dell’universo attraverso la danza. La tradizione indiana, ad esempio, racconta del Dio Shiva, che attraverso le sue movenze ha dato origine al movimento armonico dei pianeti; un intero stile di danza classica indiana (Bharatha Nathyam) è completamente consacrato a questa divinità.

Ancora più popolare è il tema della rinascita della natura e l’alternanza delle stagioni secondo il binomio nascita/morte attraverso un rito ed un riscatto. Nella cultura babilonese il prototipo della Grande Madre è Ishtar, Dea dell’amore e della sensualità. Uno dei miti a lei collegati, datato 4500 anni prima di Cristo, è presente, nella Bibbia in una rielaborazione che celebra tramite una danza rituale il riscatto dalle tenebre, la rinascita della natura e la continuazione della vita

“Lo sposo di Ishtar era morto e passato nel regno delle tenebre.
Ishtar, decisa a riscattarlo, si ammantò di tutta la sua gloria
e cercò di introdursi nel regno dei morti;
passò sette volte, attraverso sette cancelli,
e dopo ogni serie di sette cancelli lasciava,
come pegno per essere ammessa,
uno dei suoi gioielli o dei suoi veli,
spogliandosi dell’ultimo davanti all’ultimo cancello.
La danza dei sette veli di Ishtar diventerà nella tradizione
una danza propiziatoria di benvenuto alla Primavera,
o danza di Salomè, la cui radice dall’ebraico significa “Benvenuto”.

Durante l’assenza di Ishtar la terra non diede frutto,
non ci furono celebrazioni e si assistette all’arresto di ogni tipo di vita amorosa.
Solo quando la Dea ritornò sulla terra,
dopo aver recuperato i suoi sette veli
e senza conservare nei suoi occhi mortali alcuna traccia del suo segreto,
la continuazione della vita sulla terra poté essere assicurata.
La sua riunione con lo sposo Tammuz viene celebrato ogni anno in Primavera,
per festeggiare la rinascita della natura”;

tratto da “Il Serpente e la Sfinge” di Wendy Bonaventura).

In età classica il ricordo di queste divinità antiche verrà conservato, ma nel quadro di religioni più rigide e gerarchiche, nelle quali le diverse forme di culto spesso supportavano un potere che era politico e militare più che spirituale; l’importanza di tali riti andrà progressivamente scemando, e la danza femminile entrerà in una dimensione più profana perdendo, almeno in apparenza, il suo originario significato simbolico e spirituale. Rimane tuttavia significativo menzionare, per quanto riguarda il sottile legame tra danza e rito nel mondo antico, un celebre bronzo ellenistico di provenienza alessandrina:rappresenta una figura femminile completamente velata; un lembo del tessuto le ricade sul corpo in numerose pieghe e viene tirato in avanti evidenziando la figura di un fianco sollevato; ella rivolge lo sguardo in quella direzione, quasi per attirare la nostra attenzione su quella che potrebbe benissimo essere una figura di danza:nei secoli successivi, infatti, tante danzatrici del ventre saranno immortalate in questa tipica posa. Ma quel discreto velo, custode della sacralità dei simboli legati al mondo femminile sarà ormai caduto e la danza mediorientale “svelerà” tutta una serie di differenti e contraddittori destini.

Le conoscenze in campo agricolo finirono per creare un’eccedenza di cibo permettendo la concentrazione di ricchezze e potere nelle mani di alcuni a scapito di altri, rendendo così possibile lo sfruttamento di coloro che non avevano mezzi sufficienti per garantirsi la sopravvivenza. Nacque la proprietà privata, che sostituì la gestione collettiva dei beni, creando diversi gradi di schiavitù. Perno della famiglia non è più la madre, in quanto progressivamente si sarà fatto strada il concetto di autorità paterna, culminante nell’ideale romano di “Pater familias”. La famiglia romana includeva campi, proprietà, denaro, schiavi, e la donna viene inclusa in questo elenco di beni ed oggetti. Queste modificazioni avvenute in seno alla società andarono di pari passo con il declino spirituale delle donne, che smisero di coltivare le loro pratiche religiose o lo fecero in un clima di sempre maggiore segretezza e sospetto. Gradatamente i culti legati alle divinità femminili vennero sostituiti con quelli di autoritarie ed aggressive divinità maschili ed andarono ad assumere un ruolo sempre più marginale, finendo per sopravvivere solamente nella forma esoterica di cerimonie per iniziati.

Con l’avvento delle grandi religioni monoteistiche, il potere insito nella sessualità femminile viene visto come un pericolo per la salvezza dell’uomo e la stabilità dell’ordine sociale. Le regole imposte dalla società dalla religione mirano ad un suo controllo attraverso il matrimonio e la regolamentazione dei rapporti tra i sessi il cui scopo ultimo è quello di garantire la conservazione di una discendenza in linea paterna, che garantisca la conservazione dei beni in ambito familiare.

L’Islam si innesta nei territori che sono stati la culla dei precedenti riti femminili; esso si colloca in coerenza con la precedente posizione tracciata dalle tradizioni ebraica e cristiana, traendo da esse gran parte degli argomenti e dei simboli legati alla sessualità femminile e sviluppando una cultura di separazione tra i sessi già peraltro esistente e che essi solamente connotarono in maniera più precisa ed originale. Questo rigido controllo sulla sessualità femminile testimonia in realtà solo il grande potere che essa ha in tutta la cultura del Mediterraneo, una potenza che va controllata perché considerata pericolosa! Alle donne fu limitata la possibilità di espressione e fu proibito dalla religione di danzare in pubblico come avveniva nell’antichità. Sfuggirono a tale restrizione soltanto le donne dei ceti più poveri, quelle che vivevano ai margini della società e come tali considerate già di per sé delle emarginate. In questo contesto fu la tribù nomade delle Ghawazee egiziane a custodire la danza tradizionale nella sua forma più arcaica preservandola in questo modo dalla completa estinzione. Le Ghawazee, erano le sole donne che osassero sfidare il divieto esibendosi in pubblico e con il volto scoperto; esse vivevano con la danza e la musica tramandando queste arti da una generazione all’altra e sfuggendo al rigido controllo della religione proprio per la loro posizione marginale.

Anche ai giorni nostri queste donne conservano la tradizione della danza più autentica, che, nella sua semplicità non influenzata da figure di danza importate dall’esterno si caratterizza per l’uso dei cimbali, con i quali esse si accompagnavano nella danza, per i movimenti più marcati nel bacino (molto tipico dei fianchi è un swimmy lento), e per i pochi spostamenti nello spazio; praticamente si tratta di una danza eseguita sul posto e caratterizzata da un particolare movimento delle gambe, ritenuto tipicamente “ghawazee”; esse inoltre si esibiscono in più di una alla volta, spesso mettendosi di spalle una all’altra; il loro costume è caratteristico per i giubbini stretti sotto il petto, per le lunghe frange con ornamenti della testa e per le numerose treccine che terminano con monete o perline. Ad eccezione di queste zingare, il resto della popolazione femminile considerata “buona credente” doveva invece astenersi dall’esibirsi in pubblico ostentando in questo modo una sfrontatezza non tollerabile e riservare come momenti nei quali era libera di esprimersi attraverso la danza soltanto quelli in cui era in privato o in compagnia di sole donne.

La separazione tra i sessi ha tuttavia permesso che all’interno del mondo arabo il mondo femminile conservasse una propria cultura e che attraverso la danza sopravvivesse almeno una traccia degli antichi riti. La tradizione della danza si è conservata all’ombra dei cortili e nei saloni interni delle case, dove le donne trascorrevano gran parte del loro tempo intrattenendosi le une con le altre, lontano dagli sguardi maschili. Danzare era per loro un modo di stare insieme e di raccontare la propria storia, cosi come le antenate avevano fatto prima di loro, creando una dimensione di indipendenza ed autonomia rispetto alle restrizioni ufficiali imposte dalla società maschile; un’indipendenza che le rendeva protagoniste degli eventi cosmici, strumenti della potenza creatrice e le manteneva collegate ai riti dell’antichità.

Il mondo arabo-islamico è stato il grande protagonista della cultura medievale, innalzando le conoscenze dell’uomo in ogni campo del sapere, dalla scienza alla tecnica, dalla filosofia all’arte. Man mano che l’impero annetteva a sé i nuovi territori conquistati, in essi nascevano centri urbani, epicentri di un’altrettanto vivace vita culturale ed artistica, sedi di università, biblioteche, canali di scambi commerciali e culturali, luoghi di raffinata vita cortigiana nella quale grande spazio era riservato alla Danza, alla Musica ed alla Poesia. Gli arabi concepirono la Musica come una scienza esatta ed i grandi pensatori dedicarono ad essa altrettanta attenzione che agli altri aspetti del sapere con trattati sulla divisione delle scale in intervalli e sulla frammentazione dell’unità di tempo alla ricerca di un’unità indivisibile. Dall’India alla Spagna le dinastie furono promotrici delle arti e gli stessi sovrani furono poeti, musicisti, raffinati esteti.

Dalle diverse ed articolate forme di musica popolare si vanno distinguendo le scuole di musica classica, il cui repertorio colto e raffinato si prestava all’accompagnamento dei testi poetici ed al diletto delle corti. Le piccole orchestre che li eseguivano erano composte da liuti, flauti, percussioni e qanoun, accompagnati dalle sinuose movenze di danzatrici professioniste; si forma infatti in questo periodo una classe di danzatrici, danzatori e cantanti, persone scelte tra le classi più povere e tra gli schiavi che vengono istruite alle arti musicali ed alla danza per il diletto dei principi e delle corti. Tali professioniste chiamate “Ma’alima” (pl. “Almeeh”) vivranno d’ora in poi delle loro arti, nelle quali raggiungeranno livelli di elevatissima raffinatezza. Un divertente e vivace spaccato di questa vita cortigiana ci viene descritto ne “Il grande libro dei canti”, che racconta della vita di musicisti e cantanti a Baghdad alla corte del grande Harun Al Rashid, ricordato nei secoli come sovrano del quale vengono narrate le imprese nell’antologia di racconti “Le mille e una notte”.

La nuova dinastia della casa di Osman si sostituì agli antichi sovrani nella dominazione del mondo arabo, formando una delle più grandi strutture politiche che l’Occidente abbia conosciuto dopo l’impero Romano e portando la sua capitale ad Istambul, l’antica Costantinopoli. In un unico gigantesco organismo vennero riunite una molteplicità di gruppi diversi per etnia e religione. I nuovi sovrani, i “Sultani” vivevano separati dal popolo nel grande palazzo di Topkapi, il cui harem riuniva donne provenienti da ogni parte dell’Impero e che condivisero le loro conoscenze e diverse tradizioni. All’interno dell’imponente edificio, considerato una città nella città, pur nella tristezza di una vita di forzata reclusione, la vita intellettuale ed artistica era assai vivace.

Le donne dell’harem erano poetesse, musiciste, si dedicavano allo studio delle scienze ed ai lavori di artigianato. La danza occupava gran parte del loro tempo. Compagnie di attori e danzatori venivano ingaggiati insieme alle orchestre per intrattenere le ospiti dell’harem ma spesso erano le stesse donne che danzavano tra di loro intrattenendo le compagne. L’Impero Ottomano rimase l’ultima e sempre più debole roccaforte della cultura islamica, che durante i secoli successivi si cristallizzerà in forme e convenzioni sterili senza dare vita o situazioni originali. Il palazzo di Topkapi sopravviverà come ultimo e anacronistico emblema di uno stile di vita destinato a scomparire anche nel mondo orientale fino alla sua tragica e traumatica apertura al mondo moderno che avrà luogo con la fine dell’impero Ottomano e la proclamazione della nuova Repubblica turca.

Gli ultimi due secoli vedranno anche il mondo arabo in un drammatico confronto con l’Occidente, dapprima nel ruolo di vassalli e nella posizione subordinata di colonie ed in seguito come antagonisti e nemici nel faticoso cammino intrapreso per la conquista dell’indipendenza. In epoca coloniale il mondo occidentale guarda all’Oriente con occhio romantico e favoleggia un indefinito oriente di molle sensualità dove odalische oziano sdraiate pigramente su divani traboccanti di cuscini di raso e seta o dove principesse recluse affollano bagni turchi densi di vapore trascorrendovi le giornate in totale pigrizia. Immagini che hanno alimentato le fantasie di pittori, scultori, musicisti e scrittori vittime di una insaziabile sete di “paradisi artificiali” che ci hanno regalato produzioni di grande valore artistico, ma spesso non di grande attendibilità storica, prodotte da un generico gusto e desiderio di esotismo e spesso concepite da artisti che mai avevano messo piede fuori dalla loro patria. Il mondo mediorientale è ben più realista e guarda all’Occidente in maniera ambivalente e contrastante; se da un lato prova l’ostilità dovuta ad un nemico ed intruso dall’altro si intuisce una forma di rispetto ed ammirazione come un esempio da imitare, destinato a cambiare abitudini, costumi e stile di vita.

Nasce un’editoria araba influenzata dalla cultura straniera che sfocerà nel “modernismo”, una lettura ed interpretazione in chiave contemporanea dei valori tradizionali. Questo atteggiamento ambivalente darà i suoi frutti in campo artistico e letterario, con risultati non sempre ugualmente brillanti. Le arti tradizionali risultano le più penalizzate dall’influenza dell’Occidente; in campo musicale la tradizione orale, che rappresentava nell’antichità l’anima e l’essenza della musica araba classica, viene contaminata da una nuova impostazione che vuole essere forzatamente simile a quella europea. Gli strumenti tradizionali vengono sostituiti da quelli importati e mutuati dall’orchestra europea; il tappeto ritmico viene inquinato da formule che non facevano originariamente parte della musica araba; le scale orientali vengono sostituite da scale temperate; la prassi di esecuzione e di improvvisazione viene stravolta dalle nuove esigenze di pubblico e di mercato. Nel frattempo la nuova invenzione del cinema aveva rivoluzionato le abitudini ed i costumi della nuova società, tanto in Occidente quanto in Oriente!!

Negli anni ’20 sulla spinta di un progresso economico risultato dei buoni investimenti operati dai ceti alti, l’Egitto diventa (e lo sarà da allora in poi…) il maggiore produttore di film del mondo arabo. Le danzatrici non mancano mai nelle pellicole egiziane che sono per lo più commedie a carattere popolare con i tipici personaggi dei villaggi; le esigenze cinematografiche finiscono per dare alla danza, che d’ora in poi chiameremo Danza Orientale o Raqs Sharqi, un’impronta diversa. Nascerà un’industria dello spettacolo che porterà le danzatrici al di fuori dagli ambiti geografici in cui la tradizione le aveva collocate; esse non si esibiranno più soltanto nei cortili, nelle case private, nei caffè e nei mercati, ma in hotel a quattro stelle ed in grandi night club per un pubblico misto di arabi e stranieri. La danzatrice non improvviserà più, ma il suo spettacolo sarà stato precedentemente studiato e coreografato; l’orchestra che la accompagna non sarà costituita come nel passato da un piccolo gruppo, ma da un grande organico nel quale saranno inclusi anche strumenti moderni.

I costumi della danzatrice saranno più appariscenti e si allontanano decisamente da quelli indossati dalle donne arabe nella vita quotidiana. Si apre, insomma, quella che viene definita “l’età d’oro” (’20-’50) per la danza orientale, durante la quale assistiamo alla nascita dello spettacolo professionale, così come oggi lo conosciamo, influenzato dal gusto francese e favorito, così come canto e musica dalla monarchia egiziana che tende ad apprezzare e valorizzare ogni attività sportiva ed artistica in grado di nobilitare con un tocco di classe i valori e lo stile di vita dell’alta società dell’epoca. Nella città del Cairo nasce uno storico locale, il primo grande Cabaret orientale, ad opera di Badia Masabni, artista siro- egiziana nata nel 1894 e considerata una pioniera della nuova danza; personaggio vivace e dal carattere forte, ha un’infanzia molto difficile; pare che sia stata violentata all’età di 7 anni ed in seguito sia partita con la famiglia per l’ Argentina; in giovane età scappa da casa alla volta di Beirut, ma durante il viaggio, a seguito di un incontro con una donna, viene condotta in un bordello; segue una carriera di attrice, fortemente ostacolata da genitori e parenti; durante un viaggio nel tentativo da parte di questi di riportarla a casa, la giovane scappa nuovamente buttandosi dal treno e giunta nella capitale inizia la sua nuova e proficua carriera di artista; il locale da lei costituito, una sorta di incrocio tra un caffè, un cabaret ed un ristorante, diventa luogo d’incontro di artisti e personaggi provenienti da tutto il mondo; in questo contesto la Danza Orientale da inizio alla sua grande metamorfosi; dovendosi adattare alle esigenze di un nuovo tipo di spettacolo e di un pubblico più vasto ed eterogeneo, si arricchisce di elementi coreografici presi da altre forme di movimento, ritenute per il gusto di allora le più adatte a conferirle maggiore teatralità ed espressività; la danza coreografata nasce in questo periodo, così come il costume a due pezzi (di ispirazione “hollywoodiana” e tratto dai musical americani e dai cafè chantan francesi)che diverrà così inequivocabilmente (e conformisticamente!) legato a questa disciplina artistica; la prima foggia di questo nuovo costume, chiamato appunto “modello Masabni” e che appare in numerosi film degli anni ’30, era costituito da una gonna diritta con uno spacco centrale, una cintura alta ed un reggiseno con spalline incrociate sul davanti.

Nel locale di Badia la danzatrice era concepita come un’artista completa, che doveva essere in grado oltre che di danzare in differenti stili anche di cantare e di recitare. Alla “scuola” di questo storico personaggio si formeranno un grandissimo numero di apprezzate artiste, tra le quali quelle che tuttora sono riconosciute e rimpiante come le “stelle” della Danza Orientale egiziana; queste artiste e la loro “talent scout” sono singolarmente accomunate da un’infanzia difficile, un’esistenza tormentata ed avventurosa e degli esordi artistici in giovanissima età; la prima, Naima Akief, nasce nel 1929 da una famiglia di artisti del circo ed inizia molto presto ad esibirsi con la madre nei cabaret e nei locali notturni, attirando ben presto l’attenzione di Badia Masabni che dopo poco la introduce nel suo locale nel quale inizia la lunga gavetta che la rigida struttura gerarchica del locale prevedeva per ogni giovane artista:da sostituta a ballerina di fila e…per le più fortunate, finalmente al ruolo di solista e di grande “stella” del locale; essendo tuttavia molto invidiata dalle colleghe, Naima è costretta ad andarsene; partecipa in seguito ad un provino cinematografico durante il quale viene notata dal regista Hossen Fawzi ed inizia la sua carriera di attrice; nel ’57 parteciperà alla prima opera promossa dal regime (dopo?) Nasser coreografata da Mahmoud Reda con la quale effettuerà una tourné attraverso paesi dell’Est ed in occasione della quale, vincerà un concorso promosso dal Bolscioj di Mosca che la consacrerà la “Isadora dell’Est”; morirà nel 1966.

Sono di Naima Akief le interpretazioni di danzatrice e di zingara nei film “Aziza” e “Tamra Henna”. Altra eccezionale figura, formatasi alla scuola “Masabni” è quella di Samia Gamal, nome d’arte (quello vero era Zeinab)della danzatrice più conosciuta in Occidente a causa della sua partecipazione a diversi film di Hollywood di ispirazione “orientaleggiante” dei quali ha influenzato il gusto e dai quali è stata ella stessa influenzata; nata nel 1924 da madre marocchina, rimane orfana all’età di otto anni; il padre si risposa con una donna che la maltratta, costringendola a scappare dalla sorella all’età di 14 anni; in seguito farà un provino da Badia Masabni, sempre in cerca di giovani talenti, che la spinge a studiare molto e perfezionandosi nell’arte dello spettacolo; il suo primo debutto fu però un fiasco:a causa dell’emozione dimentica la coreografia e viene fischiata dal pubblico che la costringe a scappare di scena; richiamata dal suo impresario si toglie le scarpe ed inizia a danzare improvvisando, ottenendo un grande successo; da allora quello di danzare a piedi nudi rimarrà una sua caratteristica; Samia è anche ricordata per il sodalizio (nel lavoro e nella vita)con l’interprete Farid El Atrash che suonava l’oud nello stesso locale e con il quale inizia a lavorare interpretando i brani che il musicista compone per lei coltivando insieme una lunga e memorabile carriera artistica; tuttavia non si sposeranno (forse perché Farid El Atrash era di origini nobili ed ostacolato dalla famiglia); alla fine di questa collaborazione Samia inizia la sua escalation ad Hollywood partecipando al film “Ali Baba ed i 40 ladroni” con Fernandel e a “La valle dei re” con Robert Taylor; si sposa con un americano, dal quale avrà una figlia, che per lei si converte all’Islam, ma con un esito infelice, in quanto lui le “mangerà” tutti i soldi; si risposa una terza volta con un attore egiziano che contemporaneamente sposa anche la sua rivale Tayya Karioca; nell’ultima parte della sua vita tenterà di ricalcare le scene con Samir Sabri per ritirarsi poi definitivamente fino alla morte; muore nel 1994 dopo aver partecipato ad 80 film.

Sentendosi profondamente un’artista ed interprete e non una “maestra” non ha mai voluto insegnare. Il suo stile si contraddistingue per le contaminazioni classiche (ha studiato balletto con la Ulanova), che arricchiscono la sua danza con i giri, i famosi “arabesque” ed i sofisticati movimenti delle braccia che fanno da cornice a virtuose e sottili vibrazioni dei fianchi; la sua è una danza rapida veloce e molto coreografica che utilizza tra l’altro il velo, allora poco consueto tra le danzatrici.

Terzo grande personaggio è quello infine di Takhiah Karioka; nata nel 1919, condivide con le sue colleghe un’infanzia infelice vissuta tra umiliazioni e maltrattamenti; in giovanissima età scappa di casa ed arriva al Cairo dove finalmente conosce Badia, della quale viene considerata la vera “erede”. Nel famoso locale inizia la sua lunga gavetta che la porterà al debutto, per il quale il coreografo Dixon creerà per lei una sequenza in stile “carioca” ispirata ad un’interpretazione di Ginger Rogers (Takhia era infatti molto abile nelle danze sudamericane); la sua danza ebbe un tale successo che da allora il suo nome rimarrà indelebilmente legato a quella interpretazione.

Takhia Karioka era famosa per una danza vigorosa nei fianchi, eseguita, spesso con uso di cimbali, quasi totalmente “sul posto” utilizzando poco spazio e minimi spostamenti dei piedi e d’altra parte centrata prevalentemente sull’interiorità, ella danzava e recitava con lo sguardo, interpretando con grande maestria l’emozione della musica, valendosi di movimenti minimi e sofisticati; dotata di grande carisma sapeva trasmettere l’emozione e rivestire i ruoli più diversi, da quello di donna fatale a quello di ragazza allegra; la sua carriera di danzatrice si interrompe, per sua volontà all’apice, ovvero intorno ai 32 anni per rivolgersi al teatro drammatico di cui seguirà le metamorfosi; nel 1956 si impone nel ruolo di “Dark lady” seduttrice, un tema abbastanza “forte” per l’epoca, nel film “La giovinezza della donna” e con il quale rappresenterà a Cannes il Cinema egiziano; se all’interno del Cabaret aveva imposto attraverso la sua danza sofisticata la figura della ballerina come quella della donna “impegnata”, nella drammaturgia diverta fondatrice del teatro politico egiziano.

Antimonarchica, comunista, ella metterà il suo successo al servizio della democrazia, appoggiando la rivoluzione ai suoi esordi per poi contraddirla e finire in prigione nel 1953 dove inizierà il primo sciopero della fame; più avanti, in una seconda protesta, il Presidente Mubarrak scenderà a patti con lei. La sua ultima apparizione pubblica risale al ’90; muore all’età di 79 anni, dopo aver avuto 13 mariti ed una figlia adottiva. Era la danzatrice preferita di Omar Sharif e di Umm Koulthoum.

L’affermazione di queste nuove “stelle”, si associa ad altri importanti cambiamenti in tutti i campi artistici, musica compresa, nella quale vediamo nascere il nuovo “mito” della cantante Umm Kouthoum, che può ben rappresentare un ponte tra tradizione e modernità destinato ad influenzare sensibilmente la società dell’epoca. Vi sono tuttavia altri cambiamenti musicali ed artistici che contraddistinguono il nuovo secolo. A causa del progresso economico gli esponenti del ceto medio si trasferiscono nei quartieri residenziali delle grandi città che nel frattempo erano stati lasciati dagli antichi coloni. I quartieri che, a loro volta, essi lasciarono liberi verranno occupati dai contadini immigrati dai villaggi vicini verso le città in cerca di lavoro. I “fellahin” mantennero anche nelle metropoli le usanze ed i costumi propri dei loro villaggi. I ritmi suonati e le danze ballate durante le occasioni di festa si mescolarono in questo modo con influenze più “urbane”; gli strumenti tipici del folklore furono sostituiti da strumenti moderni, quali fisarmoniche e saxofoni che ben si prestavano a dialogare con i ritmi scanditi dalle percussioni. Nasce così la più tipica espressione della danza popolare urbana:il Beledi.

Gli anni ’50 che corrispondono da un punto di vista sociale e politico al periodo di Nasser con i conseguenti avvenimenti storici che influenzeranno la scena mondiale, sono testimoni di un’altro importante “pioniere” della Danza Egiziana, senza il quale non sarebbero esistite, forse le “nostre” lezioni di Danza Orientale, e sicuramente una troupe rappresentativa della danza egiziana agli occhi del mondo. Mahmoud Reda viene da un’esperienza di ginnasta olimpico; dopo l’Università trova impiego presso una compagnia (Shell) e frequenta la gioventù benestante della capitale; dalla sua considerazione che il patrimonio di folklore egiziano non viene per nulla valorizzato e riconosciuto in una forma teatrale, nasce il desiderio di “fare qualcosa” in prima persona; attorno a lui si riuniscono un gruppo di ragazze e ragazzi (inizialmente 12) con attitudini all’attività fisica e forte interesse al suo progetto che Mahmoud Reda recluta in un centro sportivo; egli svolge una minuziosa e paziente ricerca che lo porta attraverso le diverse zone dell’Egitto nel tentativo di catalogarne i passi ed i movimenti più caratteristici; attraverso un lavoro che durerà 5 anni e coinvolgerà diverse generazioni arriva ad elaborare un metodo sul quale la nascente Troupe fonderà la sua tecnica; essa prende gran parte dei suoi contenuti dalla danza orientale sia interpretata professionalmente in forma di spettacolo che eseguita più informalmente nei villaggi durante le occasioni di festa; il rimanente viene mutuato dal balletto classico e, in particolare per ciò che riguarda il ruolo maschile, dalla ginnastica. Questi sono gli “ingredienti” delle sue prime lezioni di danza; il maestro investì personalmente sia a livello economico che in tempo ed energie affinché questo gruppo, inizialmente amatoriale, arrivasse nel 1959 alla sua prima esibizione pubblica alla quale seguì una sorta di tourné in Germania; a Bonn l’ambasciatore egiziano rivolge apprezzamenti alla troupe che nel 1964 verrà ufficializzata da Nasser; la compagnia, sempre basata sui metodi di insegnamento del suo fondatore, diventa la prima troupe in Egitto e verrà d’ora in poi considerata come il “Balletto nazionale”; a questo punto è un’ organico di 100 elementi che rappresenta l’Egitto in gran parte delle occasioni ufficiali e diplomatiche; Mahmoud Reda diventerà ministro della cultura e la sua famosissima partner, co-fondatrice del gruppo, Farida Famy si laureerà in Scienze del Folklore, ottenendo una cattedra negli Stati Uniti; caratterizza l’opera di Reda la fedeltà per un verso ai temi fondamentali del folklore (le varie danze venivano sottoposte ad una sorta di “test di riconoscimento” da parte delle popolazioni locali) e dall’altro una forte spinta alla teatralizzazione che creava trame e quadretti; per Reda una coreografia deve raccontare una storia nella quale sono presenti vari spunti della vita quotidiana dei villaggi e dei sobborghi che diventano il tema centrale della danza; costumi e musiche vengono adattati ad un gusto più “teatrale”.

Ad eccezione che per l’attività di Reda, il periodo di Nasser si caratterizza per una sorta di integralismo che porta alla chiusura dei cabaret ed a un periodo di depressione da un punto di vista artistico; per la danza non è tra i più felici (velo di Nasser); seguirà una rinascita che vede l’affermarsi di altre prestigiose interpreti, alcune delle quali ancora attive ed altre dedite all’insegnamento, alla cui scuola si sono formate le giovani artiste contemporanee:Nagua Fuad, Suhair Zaki e successivamente Fifi Abdo. Seguiranno le più recenti stelle della danza egiziana, tuttora attive sia al Cairo che all’estero; ma in quest’epoca la Danza Orientale non è più solamente circoscritta all’Egitto o più in generale al solo mondo arabo, ma è piuttosto un fenomeno che progressivamente si sta espandendo estendendosi agli altri continenti.

Infatti, con il tempo la popolazione non si era spostata solamente all’interno del proprio paese natale, ma era emigrata in cerca di lavoro e fortuna, anche verso l’Occidente, dove, nelle grandi metropoli europee ed americane, le diverse comunità straniere tuttora mantengono vive le proprie usanze e tradizioni, come garanzia di poter conservare, anche in terra straniera, una propria identità culturale. L’Occidente, che aveva sognato le danze arabe attraverso l’artificioso filtro degli orientalisti, si abitua ad avere tali danze sul proprio suolo e a non essere soltanto spettatore di tale fenomeno, ma anche protagonista. Un suolo non arabo accoglie le prime esibizioni e le prime scuole di Danza Orientale e le nuove danzatrici, che si esibiscono per un pubblico misto di arabi ed occidentali, non sono donne provenienti dagli strati più poveri della società, ma più frequentemente studiose e ricercatrici, il cui interesse per la danza è soltanto un aspetto di un più largo e generale interesse per un’altra cultura e disciplina. L’esigenza di codificare una tecnica per una danza nata in realtà come espressione spontanea e imparata sul suolo originario all’interno della famiglia, da madre a figlia per imitazione, ha portato i pionieri di questa disciplina antica di tradizione, ma nuova per l’Occidente, a chiedere l’ausilio di altre tecniche di danza al fine di poter elaborare un metodo formale più adatto alla sua divulgazione. Danza classica, moderna e contemporanea andranno a contaminare la danza tradizionale, (del resto abbiamo visto che già la danza professionale del passato secolo aveva si può considerare un ibrido di diverse influenze ) dando origine tanto ad interessanti fusioni e contaminazioni, quanto a distorsioni e forzature. Le più ferventi sostenitrici di una presunta purezza della danza tradizionale, che spesso curiosamente sono occidentali, hanno visto in queste influenze il definitivo declino della Danza Orientale originaria, che ha in questo modo perso le sue originarie radici culturali.

I maestri, che attraverso il loro insegnamento diffondono tale disciplina artistica nelle diverse città del mondo, e che il più delle volte sono nati su suolo arabo, hanno visto e vedono in questo fenomeno il naturale sviluppo ed evoluzione di una forma d’arte che in quanto tale è stata e sarà sempre soggetta a continue trasformazioni. Siamo così arrivati all’ultima tappa del nostro percorso, che apre gli orizzonti della danza a molteplici prospettive future. In una società destinata ad essere sempre più fortemente multi- etnica le diverse forme di arte, che esprimono il patrimonio di culture e tradizioni differenti, verranno prima o poi fuse in un unico e comune linguaggio universale comprensibile ad ogni gruppo etnico. Quale linguaggio migliore che quello della musica e della danza, che non appartengono a nessuna etnia ma a tutti gli uomini, per aprire all’umanità canali di comunicazione più profondi?! L’uomo del nuovo secolo ha intrapreso un cammino nella conoscenza di sé che lo porta inevitabilmente a ripercorrere le tappe della propria storia alla ricerca delle proprie radici, recuperando e rivalutando il patrimonio di saggezza che ha ereditato dal passato. In questo contesto l’alone di sacralità alla quale era legata la Danza mediorientale nell’antichità può essere rievocata come uno strumento di introspezione e di meditazione che porti l’individuo ad un nuovo equilibrio tra corpo e spirito. Possiamo attingere a questa antica saggezza, dandole una forma nuova ed un diverso significato, con uno spirito libero da pregiudizi e fittizie emancipazioni. Possiamo attingere all’ancestrale potenza femminile per arricchire la nostra individualità ed esplorare attraverso il gioco della danza il nostro mondo interiore, così da vivere con maggiore pienezza e libertà la nostra sensualità e la nostra femminilità. In questa trattazione abbiamo cercato, entro i limiti concessi dal tempo e dal luogo, di illustrare le origini di questa danza, i simboli che le sono stati associati nell’antichità, il contesto culturale nel quale si è evoluta ed i relativi adattamenti che ha subito in conseguenza dei cambiamenti sociale e politici.

Abbiamo condotto questa ricerca allo scopo di ricondurre le differenze che oggi si riscontrano tra le diverse “scuole” rispetto all’interpretazione di questa disciplina ad una stessa matrice di storia comune, questo perché crediamo che l’amore e l’interesse per la Danza e per l’Arte debbano prevalere ed unire dove gli interessi particolari creano rivalità e divisioni.